Il libro

Le avventure del giovane Redburn, «ovvero le confessioni e i ricordi di un mozzo che era figlio di un gentiluomo», come precisa il titolo originale de La nave di vetro, Herman Melville dichiarò di averle scritte solo «allo scopo di procurarsi i soldi per comprare un po’ di tabacco»; il che non impedì che questa opera fosse, a ragione, considerata un capolavoro da molti lettori di gusto raffinato.

Per questo romanzo, pubblicato nel 1849, il celebre autore di Moby Dick e di Billy Budd attinse ampiamente alle esperienze fatte dieci anni prima nel corso di un viaggio attraverso l’Atlantico a bordo di un mercantile.

Un grande romanzo di mare e di formazione che entusiasmerà gli amanti del genere e non solo.

Abbondano ne La nave di vetro – Redburn: la sua prima avventura, mirabili pagine di descrizione della natura e dei costumi del tempo alle quali, dopo esserci appassionati alla vicenda umana del giovane Wellingborough, si torna con desiderio.

L’autrice

Herman Melville (New York, 1819 – ivi 1891).

La prima giovinezza è segnata dalle traversie economiche del padre Allan, commerciante, fino alla morte a causa di una malattia nervosa. Il giovane Herman, duramente segnato dall’esperienza, abbandona gli studi e si imbarca nel 1839 come mozzo su una nave mercantile, la St Lawrence, in partenza per Liverpool.

Da questa prima traversata dell’Atlantico, Melville estrae la materia prima per il picaresco Redburn (1849), contrafforte – per analisi dei costumi e sontuosità descrittiva – della grandiosa architettura del successivo Moby Dick (1851).

Non terminano le fughe esotiche: nel 1841 veleggia verso i Mari del Sud a bordo della baleniera Acushnet; viene in seguito catturato da indigeni delle Isoli Marchesi e fugge poi a Tahiti. È in questo esodo che trova spazio la possibilità tanto bramata di un paradiso «prima del cielo»: Typee (1846), con i suoi Eden privati di selvaggia felicità.

Ritornerà a Boston nel 1844 a bordo della fregata United States.

Curiosità etnologica e allegoria politico-religiosa s’intrecciano, come arnesi nell’interminabile vivisezione del reale, anche in Omoo (1847), Mardi (1849) e White-Jacket (1850).